-Prendete dei semi di papavero, mescolate con del miele e preparate una riduzione per la glassa;

-a questo punto formate delle polpette con carne di maiale bollita e pasta di salsiccia;

-infine unite spezie e pinoli e…fatene un bel ripieno per del ghiro arrosto!

Siamo sicuri che la ricetta vi abbia stuzzicato la curiosità fino a che non avete letto la parola ghiro e il vostro appetito si è letteralmente impigrito! Se foste stati degli antichi Romani, invece, avreste fatto proprio come Alberto Sordi davanti un abbondante piatto di spaghetti nel film “Un americano a Roma”. I Romani, così devoti a Tellus (la dea della Terra) e idealmente legati alle loro austere radici contadine, per pranzo mangiavano solo un frugale spuntino a base di pane, formaggio e olive, senza nemmeno sedersi a tavola. Al contrario la cena era l’unico momento in cui consumavano un pasto completo, seppure sobrio, costituito da pietanze calde.

I cittadini più abbienti però cedevano spesso e volentieri alle tentazioni e si concedevano veri e propri peccati di gola! A partire dalla conquista della Grecia l’ideologia del simposio si diffuse nella società romana: non era perciò insolito che nelle ville di città i facoltosi proprietari organizzassero maratone culinarie dalla durata di 6/8 ore nella stanza del triclinio. Era una moda così in voga che ben presto il governo introdusse delle leggi per limitare gli eccessi nel lusso (Leges Sumptuariae) e altri decreti per regolamentare i prezzi dei generi alimentari e contenere dunque i costi dei banchetti. Tra i cibi più costosi c’erano anche i ghiri: secondo l’editto dei prezzi di Diocleziano (301 d.C.), infatti, 10 di loro costavano 40 denari.

Ma cosa del cibo affascinava  i Romani? Cosa li spingeva a considerare i ghiri una ghiottoneria?

Mangiare non era puramente una questione nutrizionale bensì un rituale sociale: la cena era un appuntamento per rinnovare i legami che univano i commensali e la cucina era il mezzo che celebrava il ritrovarsi alla fine della giornata. Fior fior di cuochi ideavano ricette all’avanguardia per stupire di volta in volta gli invitati, il tutto condito da presentazioni creative e strabilianti. Non era importante il gusto, si mangiava con gli occhi: fondamentale era scegliere materie prime insolite o, meglio ancora, esotiche. Spettava poi agli chef renderle commestibili aggiustando i sapori. Era bandita la banalità a favore di mix di ingredienti sempre più originali. E crepi l’avarizia! Una sfilata ininterrotta di portate lasciava i camerieri senza fiato! Ne è un esempio la bizzarra cena di Trimalcione, ricco liberto del I sec d.C., narrataci dallo scrittore Petronio nell’opera Satyricon: in mezzo alle urla di stupore dei voluttuosi ospiti sfilava un asino di bronzo dalla cui groppa pendevano dei ponticelli pensati per sorreggere dei succulenti ghiri farciti. Ma scene di questo tipo si ripetevano per servire cosciotti di fenicottero, vulve di scrofa, piedi di cammello, lingue di airone e persino carni di giraffa. Orripilante e disgustoso ai nostri occhi e soprattutto ai nostri palati! Eppure all’epoca  un simile menù faceva sfoggio di potere economico e di maestria nell’ospitalità.

Di tutte queste stravaganze è pieno il ricettario del gastronomo Apicio, il cui ottavo libro è dedicato anche ai ghiri. Per i Romani guai lasciare gli alimenti nel loro aspetto originario: solo la cucin intesa come arte della cottura, era sinonimo di civiltà. Ecco perché erano considerate più pregiate le consistenze tenere, risultato di ricercate preparazioni che la selvaggina  richiedeva.

Poiché il ghiro era una merce molto ambita, nonostante il caro prezzo, in diverse fattorie veniva allestito il glirarium, luogo adibito all’allevamento di questi roditori. Era recintato da muri intonacati e lisci perché  le bestiole non potessero arrampicarsi né fuoriuscire e al loro interno crescevano alberi da ghianda. I ghiri venivano invece ingrassati al buio dentro  speciali vasi: essi avevano la forma di una giara, ma sulle pareti interne c’ erano  dei corridoi disposti parallelamente oppure un unico camminamento ad elica dove gli animaletti potevano muoversi liberamente. Le pareti esterne erano invece punteggiate di fori per permettere il ricircolo dell’aria. I vasi venivano rimpinzati a dovere di semi e di frutta secca prima di essere chiusi con un coperchio.

 

Testo: Chiara Reggio – Archeologa e Copywriter

Bibliografia essenziale:

  • Colonnelli G. (2007) “Uso alimentare dei ghiri (Famigli Myoxidae) nella storia antica e contemporanea” in Antrocom vol. 3 n°1, pp. 69-76
  • Dupont F. (2000) “Il cibo, i banchetti e i piaceri della sera” in Vita quotidiana nella Roma repubblicana, ed. Laterza, pp. 283-295
  • Masseti M. (2002) “Gli animali si coltivano o si allevano?” in Uomini e (non solo) topi. Gli animali domestici e la fauna antropocora, Firenze University Press, pp. 189-192
  • Wilkens B. (2012) “Il mondo romano. La cucina” in Archeozoologia. Il Mediterraneo, la Storia, la Sardegna, Editrice Democratica Sarda, pp. 68-69
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