Tre ragazzi, la morte del capo villaggio, un misterioso uomo con l’ascia di rame…
Una nuova storia, questa volta ambientata nel 3.300 a.C. (Età del Rame).
Dove? Tra le Alpi Venoste nel Ghiacciaio del Similaun.
Di chi si parlerà? A voi la scoperta, buona lettura!
Era quasi sera, la mia giornata era passata velocemente, non c’era stato tanto da fare nel villaggio, non per noi ragazzi almeno. Con quelli della mia età avevamo cercato rami di tasso nel bosco vicino, i più adatti per costruire i nostri primi archi, per fingere di essere grandi abbastanza da poter cacciare gli stambecchi che vivevano in cima alla grande montagna di ghiaccio che con la sua cima sempre bianca occupava una buona parte dell’orizzonte.
Era l’ora di cena quando sentii le prime grida provenire dall’abitazione più grande del villaggio, quella dove solitamente gli anziani e gli uomini più valorosi si riunivano per prendere decisioni importanti. Le grida erano maschili, non capivo cosa dicessero, ma dalla violenza delle urla doveva essere qualcosa di molto molto serio. Io e i miei compagni incuriositi ci avvicinammo appena in tempo per vedere un uomo correre fuori dalla casa. Notammo subito che non era particolarmente alto e che teneva la mano destra in modo strano, molto probabilmente era ferito. Non avemmo il tempo di vedere molto altro perché scomparì velocemente tra le altre abitazioni.
Era calato il silenzio nel villaggio, il messaggio era chiaro, tutti si erano messi in ascolto. Poi le prime voci di allarme e persone che correvano in tutte le direzioni. Ed ancora le grida, questa volta chiaramente di dolore. Spiando dall’entrata vidi chiaramente un uomo che giaceva steso a terra.
Prima ancora che potessimo capire che l’uomo a terra era l’anziano del villaggio,un gruppo di tre uomini si era già preparato all’inseguimento. Indossavano vesti di pelle di caprae pecora e sopra dei mantelli in erba intrecciata. Avevano tutti un’ascia di rame che anche alla luce dei fuochi emettevano dei barlumi rossastri e due di loro portavano in spalla le faretre e due lunghi archi.
Io e i miei due amici, anche senza sapere cosa fosse successo veramente, avevamo già deciso cosa dovevamo fare, non avevamo tempo da perdere, dovevamo inseguire quegli uomini e soprattutto seguire quello che era uscito per primo dalla grande casa centrale.
Mentre ci incamminavamo uno dei miei due amici disse che era stato quell’individuo ad uccidere l’anziano per invidia, l’altro invece che era stato lo stesso anziano a cominciare la lotta dopo aver deciso di cacciare l’uomo dal villaggio. La verità è che non sapevamo nulla…un motivo in più per inseguire il gruppo di cacciatori.
Nella notte, affrettammo il passo per rimanere a breve distanza dal gruppo di inseguitori armati. Non faceva particolarmente freddo e un leggero vento soffiava tra gli abeti del bosco. La luna era alta e non servivano torce accese, il sentiero era chiaro, le ombre lunghe e regnava uno strano silenzio: era diverso dal solito bosco animato dal richiamo del gufoe dal verso delle volpi a caccia. Camminammo a passo sostenuto, tanto che in breve tempo la luna era quasi sparita dietro la montagna ghiacciatae il primo tenue bagliore illuminava in lontananza il fondovalle.
Casualmente ci accorgemmo di aver superato i tre inseguitori: era un errore da cacciatorialle prime armi pensai tra me e me. Gli adulti si erano fermati a rifiatare vicino al torrente di acquafredda che discendeva dalla cima della montagnadi ghiaccio e tagliando per il bosco li avevamo lasciati alle nostre spalle. Imbarazzati per il nostro errore ci guardammo in faccia per cercare di capire chi di noi era colpevole di quell’errore: il gioco di sguardi si concluse con una risata.
D’improvviso un colpo di tosse ci fece sobbalzare: mi si gelò il sangue e un brivido mi corse lungo la schiena, nel momento in cui i miei occhi incrociarono i suoi.
Mi fissava, ritto in piedi, vicino ad un grosso larice, trenta passi da noi. Aveva una lunga barba scura, gli occhi severi; indossava un berretto di pelliccia marrone e portava un mantello simile a quello dei cacciatori che lo stavano inseguendo. Per quei pochi secondi in cui rimase a fissarmi, riuscii a scorgere anche la faretra che portava sulla schiena con l’arco ed un sacchetto di pelle appeso alla vita, prima di sparire dietro agli alberi.
Era lui? Era un assassino?
Guardai i miei amici, anche loro impietriti come me. C’era qualcosa di strano in quell’uomo. Lo avevamo già visto qualche volta nel villaggio, ma non era un membro delle famiglie fisse.
Ripreso il controllo di gambe e braccia decidemmo di ripartire all’inseguimento, stando però attenti a non farci scoprire dai tre adulti che erano rimasti ancora a bivaccare nei pressi del torrente.
Seguimmo le tracce dell’uomo barbuto lungo un sentiero che si inerpicava verso la cima della montagna di ghiaccio, ora l’aria si era fatta molto più fredda e iniziavamo ad avere molta fame.
Il nostro inseguimento continuò ancora, finché i morsi della fame cominciarono a farsi più intensi. E il cibo? Chi ci aveva pensato? Ad ogni passo ci sentivamo meno cacciatori e più prede. Avevamo ancora tanto da imparare. Per fortuna uno dei due miei compagni d’avventura guardandosi intorno individuò un tronco d’albero abbattuto. Osservando la corteccia mezza marcita notammo che sotto di essa alcune larve belle grandi avevano trovato riparo. Ne mangiammo qualcuna, ma il sapore non era dei migliori. I nostri stomaci si facevano ancora sentire con i loro piccoli ruggiti.
Continuammo a seguire la pista lasciata dal piccolo uomo barbuto: se era così facile per noi seguire quelle tracce evidenti voleva dire che non gli interessava molto essere seguito. Questo fatto mi suscitava molti dubbi e cercavo di pensare al perché un assassino non faceva più attenzione durante la sua fuga. L’aria ora era ancora più fredda e pungente, stavamo risalendo la montagna di ghiaccio.
Eravamo fuori dal bosco ormai e stavamo percorrendo la prima prateria di erba bassa e verde, punteggiata di massi scuri, alti anche come due persone, quando arrivò alle nostre narici l’odore di fumo e legna di abete bruciata. Dietro una di quelle rocce dalla forma levigata trovammo un piccolo mucchio di legna bruciata. Il fuoco era stato spento da poco, perché avvicinando la mano alla cenere si poteva sentire ancora un distinto calore.
E a pochi passi, in bella vista, su una roccia rotonda vedemmo tre pezzi di carne affumicata. Una fitta alla pancia e ci catapultammo con voracità su quel pasto. Era squisita carne di stambecco affumicata, come l’avevo mangiata spesso al villaggio, nella mia abitazione.
Quando il pensiero che quel pasto era stato lasciato là di proposito per noi ci balenò nella mente, ci alzammo di scatto per cercare lui con lo sguardo. Eccolo lì! Gridò il più giovane dei miei amici indicando una roccia alta e a punta. Ci guardava nuovamente, ma il suo volto questa volta era molto più rilassato, potrei dire di aver visto un sorriso, ma in un batter d’occhio si girò sparendo dietro le rocce.
D’istinto gridai. Aspetta! Fermati!
Ma perché avrebbe dovuto farlo?! E perché ci aveva lasciato la carne se era un assassino e un fuggiasco? Eravamo più che confusi ma continuammo a seguirlo.
Le tracce ci portarono sulla prima neve, dove la montagna diventava completamente di ghiaccio. Faceva molto freddo, ma almeno ci eravamo coperti con dei pesanti mantelli di pelle di capra. Il vento si era alzato e sferzava il piano sul quale ci trovavamo e dei piccoli pezzetti di ghiaccio colpivano le nostre guance facendole diventare di un rosso acceso.
Alzando lo sguardo lo vedemmo su uno sperone di roccia che sbucava dalla neve, era di spalle, sembrava pietrificato, guardava nella direzione opposta alla nostra e con la mano destra stringeva il suo pugnale in selce.
Il vento aumentò d’intensità spingendo i fiocchi di ghiaccio verso i nostri visi. Provammo a chiamarlo a gran voce, ormai non temevamo più quella persona, di scatto si girò verso di noi con gli occhi spalancati di chi ha paura, e per la prima e ultima volta sentimmo la sua voce, profonda e rauca: “Scappate!”.
Fu tutto molto rapido: una freccia colpì l’uomo barbuto nella schiena, all’altezza delle spalle, con una smorfia di dolore cadde in avanti senza che il corpo facesse alcun rumore quando tocco il terreno, attutito dalla neve fresca che ricopriva il paesaggio.
Terrorizzati iniziammo a correre con tutte le nostre forze verso la vallata, come se fossimo inseguiti da un orso inferocito. Le lacrime riempivano i nostri occhi mentre scendevamo lungo il sentiero.
Dovevo raccontare tutto ciò che avevamo visto e vissuto agli anziani del villaggio.
Ancora oggi non sappiamo se l’uomo barbuto era un vero assassino o se invece fu vittima della decisione del capo villaggio. Quello che sappiamo è che si dimostrò generoso con noi e che con la sua ultima parola volle proteggerci.
Sono passate molte stagioni da quel giorno che segnò la nostra giovinezza, oggi io e i miei due amici siamo ormai adulti, abili cacciatori ed inseparabili compagni di avventure.
Storia: Niccolò Camilloni